Search

Hanno detto di lui:

" La materia appare ancora preziosa, preziosissima: una ceramica così sofisticata da fare invidia a vari “specialisti” ma si direbbe tanta eleganza viene blandita, esasperata, magari cincischiata, perché risalti il più possibile la qualità opposta delle forme in cui essa trova impiego."

E. Camesasca

"Gamberini sintetizza all’interno del suo immaginario creativo, rovesciandolo quotidianamente nei brani di una impressionante suite di tele che si accumulano lentamente sugli scaffali dello studio, i termini di uno straordinario fervore."

- G. Seveso

"Il temperamento espressivo di Gamberini è sempre stato, difatti, un temperamento narrante, “letterario” nel senso meno retorico del termine."

- G. Seveso

"La pittura di Gamberini si configura, sin dalle prime prove, come caratterizzata da una forte carica espressionista."

- M. Spinella

“Dicevo all’inizio che Gamberini è uno scultore che pensa proprio perchè è nell’interno travaglio della creazione, prima nella mente, poi nelle forme, che egli esprime la sua poesia.”

-Davide Lajolo

“Ed è soprattutto grazie alla perfetta padronanza del colore che l’artista individua la sua nuova frontiera di esplorazione.”

- Sara Fontana

“Le opere dello scultore Gamberini hanno il pregio di sintetizzare una concretezza spirituale che è sofferenza ma non sofferenza passiva, nè tanto meno un atteggiamento di accettazione stoica della realtà, quanto un lucido e vivo senso della lotta come unico movimento verso la liberazione dalla sofferenza”

-G.M. Bonifati

G.M. Bonifati – Theodorakis, il sangue della tua ferita

La materia è di per sé qualcosa che si evolve, muta, rinnovando la sua stessa struttura molecolare, essa non soffre durante il processo di trasformazione, che travalica la comprensione del tempo umanamente concepibile, essendo infatti un tempo che appartiene al corpo vivo della terra, alla sua struttura fisica. Ma l’artista è in grado di cogliere in essa una sofferenza ben profonda, egli sa far emergere dalle carni della madre terra quel dolore e quel patimento della materiale che appartengono interamente all’uomo.

La materia che Ruggero Gamberini plasma in strutture concettuali inerenti allo stesso processo evolutivo non ha una fisicità tangibile ma muta e cresce nella concettualità espressa dall’artista attraverso la violenza di determinazioni che sono strettamente inerenti ad un processo vitale che va oltre il biologico, oltre la stessa materia come forma, ma che si lega indissolubilmente all’esperienza dell’astrazione visiva come sintesi della forma concettuale dell’esperienza umana, nell’interagire col mondo concreto della visione delle apparenze. Ciò che vediamo ha un significante che non può essere scisso dall’esperienza che con esso si è compiuta, di mutamento in mutamento la materia ha accompagnato il formarsi dei nostri processi percettivi determinate il concretizzarsi dei sensi come possibilità di dialogare con essa. Lo strumento della visione unito alle articolazioni superiori ha permesso che egli potesse rappresentare quell mondo interiore che sintetizzava il significato dell’essenza, e che si è figurato via via la realtà astraendone alcuni aspetti particolari che ne corso del tempo hanno influenzato la sua vita, raffigurandoli come concretezze spirituali e corporee, fino a cercare di penetrarne il segreto che gli ha infuse la vita.

Le opere dello scultore Gamberini hanno il pregio di sintetizzare una concretezza spirituale che è sofferenza ma non sofferenza passiva, nè tanto meno un atteggiamento di accettazione stoica della realtà, quanto un lucido e vivo senso della lotta come unico movimento verso la liberazione dalla sofferenza come ristrettezza, come privazione contro la tensione liberatoria. È questa tensione che emerge con forza dai bronzi dello scultore, a testimoniare un accadimento della forma, come un incitamento a rompere quelle solide barriere della materia attraverso la stessa sua evoluzione umana. Un’umanità che non è tuttavia un dato scontato, prodotto sociale sintetizzabile in alcunché di concreto , quanto piuttosto conflitto, negoziazione e rimodellazione della stessa, un sussulto di atteggiamenti che sono evoluzioni espressive di quell’assetto del magma che si forma e si piega a comportamenti antropomorfici. Sarebbe fuorviante dire, a questo punto, che la materia non vive quel sussulto e quella tensione che pure ispira con tale evidente deliberazione, il ricondurre all’astrazione progettuale un prodotto di un’evoluzione storica la alienerebbe dal suo senso profondamente radicato nella terra, da quella sorte di religioni primitive che conduce l’artista ad espletare un siffatto realismo in una massa altrimenti priva di un significante socialmente accessibile all’uomo.

Qui, infatti, forma e sua trasfigurazione mentale sono indissolubilmente legate al rapporto tra realtà e sua rappresentazione, che non è e non può essere soltanto rappresentazione concettuale del reale, sua astrazione, perché qui è l’arte ad espletare tale ruolo e non la scienza, essa è qualcosa che la mente non può prendere totalmente nella razionalità che lascia ampi spazi all’intuizione e l’immedesimazione dell’oggetto. Il suo corpo è composto da alcunché di impalpabile e di etereo agli occhi della mente, che lo intuisce ma non lo cataloga, che ne afferra il messaggio pur senza comprendere come ciò sia stato possibile.

La forma è allora un linguaggio attraverso il quale non solo l’artista esprime le sue potenzialità espressive, la sua concezione formale della realtà, ma anche il mezzo attraverso il quale egli diventa una sorta di mediatore tra l’evoluzione della forma, la sua espressione e il resto dell’umanità che gode del prodotto dell’arte come qualcosa di magico, fantastic, proprio perché ne coglie la natura extrasensoriale e sensoriale allo stesso momento.

Certo, nella sua forma critica, nello svelarne alcuni processi percettivi, l’opera è per alcuni aspetti imprigionata in una specie di catalogazione e supervisione scientifica, ma ad una migliore osservazione ciò che il critico coglie nell’opera d’arte non è la sua valenza di prodotto concettuale, anche se ciò ne può essere un aspetto, anci certamente lo è, ma la tensione che l’opera riflette si trasforma da linguaggio essenzialmente visivo, extraverbale, in un linguaggio verbale ora critico ora poetico, nella parola come elemento perturbatore e scatenante di quell’intuizione visiva che altrimenti, per scarsa sensibilità, potrebbe andare perduta.

Le opere che Ruggero Gamberini presenta alla manifestazione di Theodorakis non sono soltanto un omaggio dovuto ad un artista ma anche il prodotto di quella medesima solidarietà dell’arte con gli avvenimenti sociali della sua epoca che egli si fa carico di rappresentare in forma d’arte. Certo, diversi sono i mezzi e gli atteggiamenti di fronte a differenze problematiche della lotta sociale, ma ciò che traspare dalle opere dello scultore è proprio questa sua attenzione e sensibilità ai fenomeni sociali che hanno sempre incatenato l’uomo alla lotta per la pura sopravvivenza.

Gamberini è dunque un attento lettore di quei movimenti e fermenti del soggetto umano nella più grande espressione di bisogno, bisogno di libertà concrete e tangibili.

E. Camesasca – Le terrecotte di Gamberini

Questi i temi delle sculture di Gamberini: copie, oggetti inventati, animali ecologici. Non riesce sempre facile distinguerli, e questo mi sembra bene, perché uno scultore dovrebbe sempre adattare alle proprie esigenze le forme che lo ispirano; comunque, per comodità, se ne può parlare come di tipi definiti.

Penso di trovarmi d’accordo con altri se dico che le copie, eseguite attingendo nella scultura classica (divinità debitamente drappeggiate e simili) sono i “pezzi” più gradevoli di Gamberini: c’è dentro un tale amore-ironia, una tale gioia (o canaglieria) dissacratoria, un tale piacere di centellinare la riconoscibilità del modello, che conciliano una lunga attenzione da parte del fruitore.
C’è inoltre buon gusto, senso plastico sicuro, acume di materie carezzate e dipinte con sottigliezza.

Gli oggetti inventati presentano più o meno le stesse caratteristiche; e anche gli stessi prestiti ottenuti qua e là, ma così evidenti che il giochino di segnalarli non sarebbe nemmeno divertente.

Il discorso cambia di fronte agli animali ecologici. La materia appare ancora preziosa, preziosissima: una ceramica così sofisticata da fare invidia a vari “specialisti” ma si direbbe tanta eleganza viene blandita, esasperata, magari cincischiata, perché risalti il più possibile la qualità opposta delle forme in cui essa trova impiego.

E. Camesasca 1988

D. Lajolo – La scultura di Gamberini

Anzitutto Ruggero Gamberini è un artista che pensa. La constatazione non è affatto naturale come parrebbe, tenuto conto del numero assai alto di scultori che ostentano troppa sicurezza nelle loro progettazioni, fidandosi dell’ispirazione e nel colpo di genio dell’ultimo istante.

Quando Gamberini, ad esempio, ha avuto l’incarico di costruire il monumento di Casalpusterlengo alla Resistenza, non solo ha volute sapere cos’era stata la Resistenza in questo paese, ma chi ne erano stati i protagonist e da quali radici profonde era esploso quell’amore di libertà che li aveva fatti schierare in una lotta mortale.

Solo dopo aver conosciuto tutto questo, dopo aver frequentato la gente del paese, dopo aver parlato con i giovani e con gli anziani, Gamberini ha cominciato a modellare nella sua fantasia e nel suo sentimento l’opera che voleva realizzare per esprimere quelle giornate, quei personaggi e che hanno fatto la storia.

Per il monumento di Lainate c’è stato ancora di più; il monumento è stato richiesto dalla popolazione espressamente; la quale ha addirittura aperto una sottoscrizione e ha chiamato Gamberini. La responsabilità era perciò doppia per un artista come Gamberini che sente profondamente la vocazione a dialogare con la gente. Direi, osservando i disegni che Gamberini ha fatto ancora un salto di qualità, perchè ha saputo infondere nel marmo le sue forme, rendendo più esplicito il messaggio resistenziale.

L’opera per il monumento di Lainate è più complessa, le immagini si intrecciano e l’uomo partigiano, il combattente, maschera il volto esprimendo il suo coraggio e la sua forza. Oso dire che pochi scultori riescono così compiutamente a dare immagini della Resistenza non avendola vissuta per la loro età, sicchè queste due opere di Lainate e di Casalpusterlengo sono il volto della lotta accanita di ieri e il volto della nuova Resistenza che continua.

Come i partigiani non hanno scelto di militare nella Resistenza vestiti da eroi, ma soltanto per assolvere il loro compito di uomini liberi, con la stessa modestia, abolendo ogni retorica celebrativa, Gamberini ha fatto lentamente nascere nella sua intelligenza e nella sua creatività le forme, il linguaggio, le presenze che dovevano dire senza parole l’epica storia di uomini senza bandiera, ricchi di un ideale che il tempo, pur così avverso oggi allo spirito che ha animato la Resistenza, non è riuscito a mistificare.

Ecco perchè i disegni, gli approcci per arrivare alla costruzione di questi monumenti e delle altre opere di Gamberini hanno questa tensione che prorompe dai materiali usati e parla, quasi che ogni linea, ogni curva, quegli spazi vuoti e quei pieni ripetessero nella memoria di chi ricorda e di chi vuole conoscere i segreti del coraggio, gli spasimi delle ferite, il grido di vita anche quando si combatteva alla morte.

La scultura di Gamberini quando è fusa nel bronzo non perde questa evidenza e questa presenza, la realtà è intrisa nell’aria, nel linguaggio della pietra e del marmo senza bisogno di ricorrere ad un figurativo che rischia sempre di cadere nella retorica e di fermarsi al gesto statico che non ha più nulla nel movimento che non può ripercorrere il lungo silenzioso andare dei protagonisti e il fermarsi all’appuntamento con la morte, amando come non mai, proprio perdendola, la vita.

Dicevo all’inizio che Gamberini è uno scultore che pensa proprio perchè è nell’interno travaglio della creazione, prima nella mente, poi nelle forme, che egli esprime la sua poesia; quando dona I toni scopre i muscoli e l’anima.

Se dovessi dare una definizione sia pure provvisoria del modo di scolpire di Gamberini, direi che emerge soprattutto una intima cultura prima ancora del necessario mestiere, emerge soprattutto quella ricerca dell’espressione poetica che riflette le sue lunghe meditazioni.

Gamberini ha dalla sua la modestia di chi sa che la strada della perfezione è lunga e stressante, ma che bisogna percorrerla a tutti i costi. Gamberini ha il fiato e la saggezza per non demordere.

Davide Lajolo, 1983

M. Spinella – La pittura di Gamberini

La pittura di Gamberini si configura, sin dalle prime prove, come caratterizzata da una forte carica espressionista. Direi, tuttativa, che una tale scelta espressiva non nasce in lui dalla ricerca di un modello, sia pure congeniale, ma da una diretta sollecitazione a cavare da sé, dal proprio mondo interiore, una modalità figurativa che corrisponde ad una realtà esterna deformata, franta, caotica.

Una scelta perciò che assume tutta la naturale violenza della protesta, del rifiuto, della rottura; e che non certo casualmente si applica a una tematica che percorre il momento – o meglio la lunga, drammatica vicenda – della lotta dei popoli per la propria liberazione: il Risorgimento, il Vietnam, la Resistenza. O si sofferma, secondo una coerente linea immaginativa (e di pensiero) su ciò che a tale liberazione, nelle sue forme più brutali si oppone: e valgano per tutte la raffigurazione della strage fascista di Brescia; e di quel coacervo di segni di morte che sono i militari, i generali di ogni guerra di repressione.

Dopo una pausa di ricerche grafiche, ove può apparire che il gioco degli equilibri formali possa esorcizzare, o quanto meno allontanare le immagini del male, dell’umana sofferenza spinta ai suoi estremi dalla volontà distruttrice del dominio, Gamberini sembra tornare sua ispirazione di fondo.

Quella volta, tuttavia – quasi la superficie piana della tela non fosse più sufficiente a sostenere il suo impeto – sceglie la scultura. Ma imprime a questa nuova forma espressiva – e semmai con una consapevolezza che i materiali rendono più acuta e tangibile – il suo discorso di sempre, la traccia che sulla sua sensibilità e personalità creative ha lasciato il mondo capovolto del nostro presente, un mondo nel quale la distruzione, la violenza, la guerra sono la realtà quotidiana, e la pace, la gioiosità soltanto una – inarrestabile! – aspirazione.

Mario Spinella, 1986

G. Seveso – Il fiume dei sentimenti

IL FIUME DEI SENTIMENTI – Giorgio Seveso

È talmente tale e tanta, in questo artista che oggi si avvia alla maturità, l’ansia di ricerca espressiva e formale, il vivo desiderio d’un rapporto sempre più efficace tra idea e forma, tra sentimento e risultato, e talmente attivo il suo fervore d’approfondimenti senza limiti, che davvero il suo lavoro possiede un carattere tutt’altro che posato e riflessivo, e lo chiamerei senz’altro alluvionale, pressante, serrato, giovanilisticamente incalzante: un fiume.

Ma occorre anche dire subito come un tale aspetto, che farebbe pensare ad un qualche cosa di vulcanico e ribollente, cioè ad un fare arte “caldo” e quasi allucinato, come ad una serie di esplosioni rivolte all’esterno e legate ad una episodicità causale, appare, ben al contrario, frutto di una qualità particolare del temperamento, del suo modo di accostare e vivere l’intervento nell’immaginario, che è qualità, invece, diciamo “fredda”. Una qualità che rimanda cioè ad una concentrazione molto precisa e intensamente rivolta all’interno, ad un progetto globale intimo e interiore, connotato da rigore e metodicità. E che definisce un modo di lavorare, e di pensare il lavoro, che, lentamente e puntigliosamente, vive dentro di sé l’ambizione gioiosa e ludica di esplorare minuziosamente ogni sua potenzialità possibile, ogni suo effetto e conseguenza, ogni sua deriva.

Tutta un’altra cosa, quindi, dai sacri fuochi e dalle fervorose isterie creative di molti suoi colleghi informels, ai quail per linguaggio e modi, per multiformità di ingegno e di tecniche, per cosmopolitismo d’espressione, per generosità e dissipazioni di segno e di gesto potrebbe tuttavia essere avvicinato.

Ecco qui un artista, difatti, profondamente riflessivo, che guarda e immagina le sue cose in una prospettiva come di sguardo ravvicinato, di micro-osservazione che si fa pretesto di pittura o di forme evocative, innesco di suggestioni, di stimoli, di allusioni…

Gamberini ha origini venete e polesane. Ed è profondamente sensibile a tutto ciò che riguarda la sua terra, nel rapporto col grande fiume. La “rotta” del Po del ’51, le esondazioni e gli impaludamenti, le golene, i sabbioni e gli argini, le ghiaie e le argille, infatti, fanno parte determinante del suo immaginario nei diversi momenti e snodi del suo itinerario espressivo. Eppure, forse per una sorta di misteriosa continuità padana legata al fascino ambiguo e magico della pianura, i suoi linguaggi hanno viaggiato e viaggiano in territori di sensibilità pittorica anche spiccatamente lombardi, al punto che oggi, direi, lo si può considerare un pittore certamente Lombardo, modernamente Lombardo, ricco cioè delle radici e degli umori di un genius loci evidente, che ha tutta una sua storia e una sua palpitante tradizione , e che è insieme capace di dilatare, di torcere e distendere tale tradizione verso una metaforizzazione delle atmosfere psicologiche dell’uomo d’oggi e della società nostra con le sue contraddizioni, le sue aspre caratteristiche ma, anche, con I suoi spazi di lirismo e di sogno.

Difficile, difatti, dinnanzi a queste sue grandi e palpitanti carte e tele, davanti alle sue pietre, alle terrecotte o ai bronzi, non pensare alla lezione di Francesco Arcangeli ed alle dilatazioni fervorose del naturalismo appunto lombardo, in tutti i suoi echi esistenzialistici.

Cèzanne, davanti alla montagna Sainte-Victoire, diceva che “tout est, en art, surtout théorie développée et appliqué au contact de la nature”. Ecco, in fondo anche Gamberini realizza in arte gli sviluppi delle sue teorie al fuoco vitalizzante di uno speciale, acutissimo rapporto con la natura. In alcuni suoi cicli tale rapporto, tale frizione o sintesi tra esigenze della forma e circostanze naturalistiche (il paesaggio, le piante, il fiume: la nostalgia e il sentimento generale di tutto ciò) diventano così particolari e così attivi da trasformare le immagini addirittura in una sorta di topografia e cartografia della memoria, in cui le anse e le gore del Polesine si fanno materiale di pittura e urgenza definitiva di segno, trasformazione di forme… un po’ come poteva accadere per i cespugli, i fiori e le nebbie rugiadose di Morlotti.

E dunque, quasi per una riedizione dell’aeropittura futurista, una vertiginosa visione dall’altro si sostituisce al ricordo, e il gran fiume si transustanzia in protoalvei, in corrugamenti, in macchie e concrezioni, in gesti e materie tipici di un intense repertorio formale.

Ecco, ancora: il fiume. È forse qui uno dei nuclei più robustamente soggettivi della sua personalità, la sua vera radice. Il temperamento espressivo di Gamberini è sempre stato, difatti, un temperamento narrante, “letterario” nel senso meno retorico del termine. Dunque fortemente lirico, poetico, necessariamente legato, inoltre, all’immagine , cioè ad una sottostante sinopia figurativa ineliminabile dalla sua opera anche nei momenti di più disinvolta dilatazione segnica dell’espressione. E dunque, anche, sempre denso di allusività diffusa, di poeticità posta costantemente alle sorgenti dell’immagine per dettarne le più adeguate condizioni formali.

Il sogno, la memoria, l’emozione, il senso dello sguardo che, nella sua soggettività, diviene l’ ”io narrante” delle opere, costituiscono, insomma, il perno autentico dell’opera di Gamberini, la sua coerenza ferma e definitiva. Le sue origini, la sua terra, hanno deciso la sua pittura, la sua poesia.

E le sue immagini, soprattutto in questi ultimi anni, sono appunto costantemente sottese ad una tale soggettività sensibile. Sono sottoposte ai fermenti e alle vibrazioni del ricordo, come ad un rivedere o risentire la natura e le cose attraverso il riverbero dell’anima: una natura, un mondo effettivo ma anche affettivo, sempre più protagonista che mero sfondo, sempre più “personaggio” che scenario; quella natura polesana ma anche lombarda, appunto, nebbiosa e magicamente terrestre, che trovi attorno alle nostre acque e ai fossi, ai campi, alle periferie della pianura, e che in lui si riveste come di garze luminose e terrestri, come di scorze gentili e sinuose, levitando fino alla vertigine negli ambigui incantamenti della visione.

È proprio da qui, dall’urgente particolarità del suo lirismo, che nasce anche una sorta di eclettismo nel linguaggio di Gamberini. Un eclettismo, una diversità di modulazioni, appunto, per me solo apparente o, meglio, solo di superficie, poiché ormai da molti anni tele e disegni, forme e sculture si affastellano e si sostituiscono l’un l’altra tra le sue mani quando inseguono, certo, l’idea o la traccia fantastica di una visione, l’estro di un’immagine inzeppata di rimandi, di echi, di richiami; ma ciò che soprattutto inseguono, appunto, non è tanto il clamore di un risultato fine a se stesso, l’intenzione di stupire in modo iperbolico e meravigliante sul ilo di lana dell’effetto finale, quanto invece – come per un’esplorazione, dicevo, di intime topografie sensibili – il risultato di un fascino difficile dei procedimenti e delle associazioni mentali ed emotive che si dispiegano sotto le dita.

E dunque queste accumulazioni, questi deragliamenti e intrecci ripetuti da tecnica a tecnica e da materia a materia, che contraddistinguono il lavoro di Gamberini, derivano da un’inquietudine meditata e dosata, che ha il permesso (e questa licenza l’artista se l’è concessa e pagata in prima persona, con una carriera appartata, fuori dal gran giro delle “mode” e delle indicazioni vincenti) di agire in ogni direzione, a 360 gradi. Un’inquietudine solo apparentemente effimera e, invece, ben concreta, poiché i segni di queste esplorazioni espressive provengono direttamente dalla sua sensibilità più profonda, e non invece dalle mere ragioni del gusto, dai sempre possibili opportunismi dell’epidermide.

Ecco perché si può senz’altro dire che il lavoro di Gamberini può richiamare tutto un insieme di tendenze dell’oggi, evocando e “somigliando” ad una serie di presenze e di giochi di prestigio che, nel loro intimo, sappiamo tutti essere fino in fondo debili, assai transitori e inutile, privi di qualità e di efficacia poetica effettiva. Ma, proprio per le ragioni di fondo di questa scelta di libertà, si deve anche subito aggiungere che la sua strada manifestamente diverge – e profondamente- da quella della corte dei miracoli che oggi spesso affolla le nostre Biennali ed ogni altra istituzione d’arte pubblica e private in linea con le mode prevalenti: diverge dalla loro vacuità etica.

Nella diversità dei suoi modi e dei suoi stili non c’è mai, insomma, la ricerca dell’attualistico estetico, qualcosa che s’è conformato così, in queste forme e caratteristiche, per partecipare al “gioco” in ogni modo, per essere comunque oggi presente, o – secondo la definizione del filosofo Fulvio Papi – “compresente”.

Una domanda pertanto si impone. Si può parlare, per lui, di una sorta di filo rosso che unisca questo lavoro, nel cumulo febbrilmente problematico delle sue vicende, a quello di altri di un passato anche recente, quando molti artisti, accettate le premesse formali e “semplicemente” estetiche dell’arte ufficiale (o del gruppo di tendenze ritenute tali dalla grande industria culturali), sono riusciti tuttavia ad immettervi elementi di dubbio, di rottura, di contestazione? Personalmente sono convinto di sì. Il recupero che egli compie è straordinariamente profondo, operando all’interno dei materiali del suo privato e su ogni traccia delle contraddizioni, dei disagi, delle speranze fondanti dell’uomo di oggi: è un recupero che, senza tradire mai ogni più specifico sapore della forma, riesce per contrasto o per suggestione a suggerire, sempre, il peso della nostra unidimensionalità, a dire – la disumanante condizione di piattezza denunciata dall’encefalogramma emotivo e umanistico del nostro presente.

Da Vedova a Pizzinato, da Klee a Pollock e soprattutto ad Afro, il nostro Gamberini ha dunque coraggiosamente esplorato, individualmente, solitariamente, per amore e non per carriera, l’oro fino o da raffinare dell’arte contemporanea. Ha attinto qua e là, senza lasciarsene per tanto o per poco prendere e sedurre fino in fondo, ciò che gli serviva o che lo persuadeva, in barba ad ogni copyright e ad ogni preoccupazione di coerenza filologica, solo attento alle proprie urgenze d’espressione, a ciò che lo preoccupa, che lo seduce, che lo intriga.

Cioè attento, in primo luogo, alla vita: e poi, in seconda battuta, anche contemporaneamente ma in linea differita, anche alle ragioni formali o più generalmente estetiche dell’artista e dei suoi problemi, delle sue modalità di espressione.

E proprio qui è il segreto della sua freschezza, dell’immediatezza e, se vogliamo dirlo in una parola, della fascinazione talvolta “torbida” del suo lavoro, come può talvolta apparirci torbida la natura vista attraverso gli occhi socchiusi.

Tutto ciò che egli ci mostra è trasfigurazione poetica, interpretazione espressiva, esperienza – più o meno consapevole ed esplicitamente “raccontata” – di cose e di accadimenti vissuti o saputi. Tutto quello che Gamberini mette in figura, insomma, è già accaduto, è già visto, ma è anche, da lui, con il calore freddo della sua attenzione e tensione, “giudicato” spietatamente, senza remissioni, in una luce che riporta ogni cosa all’interno del nostro quotidiano esperibile, delle cose e dei giochi di ogni giorno. E proprio questa, ne sono sicuro, è una delle poche maniere residue per rimanere oggi veri artisti, veri, e sinceri, poeti dell’immagine, sia pure dilatata e “tirata” alle sue più estreme conseguenze formali.

Ogni poeta sa – e lo sa anche Gamberini, dal fondo della sua contemplatività e del lavorio della memoria affettiva – che, come scrisse Samuel Beckett, “soltanto le parole rompono il silenzio, tutto il resto tace”. Cioè la natura, per dirsi agli uomini, deve essere detta, deve essere parlata. E Gamberini, appunto, con i suoi segni e le sue suggestioni mature e persuasive, riesce suggestivamente a parlarcene nel migliore dei modi

Giorgio Seveso, 1997

S. Fontana – Nei labirinti del colore

Il viaggio attraverso la pittura degli ultimo dieci anni di Ruggero Gamberini lascia gli ormeggi sulle rive nebbiose del Polesine, la terra d’origine, e approda alle forme vivamente colorate e danzanti dei quadri recenti, in cui l’artista approfondisce una ricerca sulla dimensione simbolica del colore e dello spazio.

Le sue opere recenti delineano un itinerario compiutamente sviluppato, ben suddiviso in cicli, esito della contaminazione di diverse esperienze geografiche e accademiche. In esso è gradualmente maturato quel processo di semplificazione formale e cromatica che ha determinato il crollo delle superstiti sovrastrutture segniche e narrative, ultimo retaggio della figurazione degli esordi.

Sulla formazione di Gamberini è difficile sbilanciarsi, dato che è stato allievo in quattro diverse accademie – Bologna, Venezia, Torino e Milano – e discepolo di almeno quattro “maestri-simbolo” di quelle istituzioni: Virgilio Guidi, Gastone Breddo, Enrico Paulucci e Pompeo Borra. L’Accademia, per Gamberini, è stata quindi un’occasione per confondere deliberatamente le idée, non lasciandosi plasmare da nessuno.

Alcuni dipinti, anche recenti, sembrano lasciar intuire lievi assonanze con certa pittura degli spazialisti veneziani, Vinicio Vianello e soprattutto Edmondo Bassi e Gino Morandi, entrambi allievi di Virgilio Guidi. Tuttavia la problematica del colore-luce e a tensione a liberare la propria pittura da ogni diretto riferimento naturalistico non bastano a dimostrare un sufficiente grado di influenza. Né ha lasciato tracce significative l’ispirazione postimpressionista di Enrico Paulucci.

Diventa quindi difficile – soprattutto dagli anni sessanta in poi – inquadrare la pittura di Gamberini entro un contesto preciso di correnti e fonti di ispirazione. Si assiste invece a un’evoluzione in cui egli resolve la pittura materica ed “esistenziale” assimilate nell’ambiente lombardo in un originale linguaggio segnico e cromatico. Ciò che vi si coglie è piuttosto l’inestricabile intreccio di vari elementi: le competenze acquisite nell’umile quotidianità del lavoro, lo studio di “modelli” illustri come il Cenacolo di Leonardo, l’apprezzamento per la ricerca sulla luce di Claudio Olivieri, suo compagno a Brera assieme a Livio Marzot e altri, gli scambi con i nuovi amici Giacomo Nuzzo e Tonino Milite e infine i libri, una passione vitale e mai sopita. Verso quell’epoca Gamberini conserva il rimpianto per una città contemporaneamente dinamica e lenta, ma soprattutto capace di mettersi in ascolto della creatività. Ricorda con nostalgia di aver visto girare Rocco e i suoi fratelli negli orti dietro piazza Bausan, allora percorsa da poche auto, e forse un po’ s’identifica con i suoi protagonisti e con le loro speranze.

Oggi Gamberini ha lasciato il centro città e vive in un contesto più vicino alla natura. Una scelta che si riflette in parte nella sua pittura. Nei dipinti raccolti in questa occasione si coglie, nella seconda metà degli anni novanta, un’eco del solco dei fiumi e della linea che congiunge il mare e la terra, in un concerto di bianchi, viola e rossi. L’artista li chiama “mappe della mente”, consapevole che quelli sono i ricordi inestirpabili di luoghi della sua infanzia, luoghi spesso deturpati negli anni recenti. Sono memorie già sbiadite dal tempo e che la maturazione della sua pittura rende ancor meno descrittive.

La svolta nella sua ricerca avviene all’inizio del nuovo decennio, da una parte attraverso la riduzione della tavolozza, giocata su uno o due toni, dall’altra parte mediante la materializzazione nell’opera – in tal caso una serie di piccole tavole-, di uno spazio circolare in cui lo spettatore si trova immerso.

Qui il gioco dei riflessi e delle luci tende a divenire sempre più complesso, stimolato dal desiderio dell’artista di indagare lo spazio, fino al salto decisivo, collocabile intorno al 2005.

E’ a questa data che compaiono i primi dipinti nei quali il dialogo dei piani di colore, in apparenza isolato da un perimetro di pennellate energiche, si affaccia in realtà in primo piano, acquistando una forza e un rilievo inediti. Un’ambiguità tecnica e simbolica raggiunta come di consueto sovrapponendo magre stesure di colore e ottenendo infine una strutturazione rigorosa.

Questi esiti recenti del linguaggio dell’artista sono stati probabilmente influenzati da una consistente esperienza di lavoro esclusivo con la scultura, dalla fine degli anni settanta e lungo tutto il decennio successivo.

È stato l’impellente bisogno di manipolare i materiali, in primo luogo la terra, a spingere verso le tre dimensioni un temperamento schietto e impulsivo, sia nei sentimenti che nell’espressione pittorica e plastica, come quello di Gamberini. Opere come Vegetale (1985), Dinamismo (1989) e soprattutto i monumenti alla resistenza di Casalpusterlengo (1980) e di Lainate (1983) affrontano e risolvono, in modi diversi ma coerenti, i problemi dell’intersecarsi dei piani e del rapporti tra le forme, in seguito approfonditi nei dipinti. Le opere del 2006 svelano un’acquisita disinvoltura: Gamberini vi ribalta i ruoli dei pieni e dei vuoti, del primo piano e dello sfondo, delle luci e delle ombre, si affida a dinamici incastri, ritma a contrappunto le forme in prospettiva, interrompe con alcune note stridenti l’uniforme pitture tonale.

Naturalmente questo ordinato gioco di forme, fortemente strutturate o galleggianti nello spazio, non può fare a meno di inseguire il colore, negli ultimi anni straordinariamente vivace ed esuberante.

Esso viene spesso selezionato fra i toni del rosso, del viola, del giallo, del verde e del marrone, sempre meno del bianco (dominante negli anni novanta), e ancor meno del nero, eliminato da tempo e sostuito dal terra d’ombra bruciata.

Ed è soprattutto grazie alla perfetta padronanza del colore che l’artista individua la sua nuova frontiera di esplorazione, tuttora aperta: il tentative di fermare sulla tela un “avvenimento”, comunicandole le coordinate di spazio e di tempo, ossia l’ora precisa, che si traduce in un’equilibrata gamma di sottili sfumature tra fasce luminose e zone avvolte dalle tenebre.

Anche in questo caso, la ricerca viene annunciata e preparata da una sequenza di piccole tavole in legno in cui il segno colorato segue percorsi morbidi e ondulati, con un ritmo continuo che rinvia alle opere degli anni novanta, oppure le forme si geometrizzano, penetrando un azzurro chiaro che evoca il cielo pulito e cristallino.

D’altra parte la volontà di afferrare “un’ora particolare” (è il titolo di un dipinto del 1993) e la ricreazione di un’atmosfera serale o notturna avevano già animato I percorsi astratti evocative dei territori del Polesine, frequenti nelle opera dei primi anni novanti.

Sara Fontana, 2008

S. Palmarin – Lo studio

Lo studio di Ruggero Gamberini si cela dietro un portone di legno dipinto di verde; nessuna targa, nè campanello. Un’unica piccola stanza, piena zeppa di quadri, tele dipinte non ancora fissate ai telai, colori e pennelli in grande quantità e un numero imprecisato di giornali e riviste ammonticchiati su di un tavolo. Addossata alla parete e nascosta da una corona di altri quadri accatastati sta una vecchia poltrona. Due finestre, che confessa il proprietario, non vengono mai aperte, giustificano l’odore che si percepisce entrando: un odore gradevole di “umido buono”, accogliente che riporta alla memoria le tante domeniche d’inverno passate nella casa di campagna dei nonni. In questo studio sono custoditi più di 40 anni di lavoro, anche se sono le opere degli ultimi 10 anni, dal 2003 al 2013, che Gamberini mi fa vedere questo pomeriggio. Tele di dimensioni perlopiù molto grandi, dipinte ad acrilico, che affascinano e incantano per l’utilizzo sapiente dei colori. “Sentivo il bisogno di costruire col colore, di creare uno spazio dietro una matassa di colore”, mi dice mentre inizia a mostrarmi i suoi lavori: e, in effetti, le ampie pennellate tracciate sulla tela, danno vita a veri e propri corpi che emergono dalla profondità del quadro in totale assenza di segno, a sola ragione della lora vicinanza e della loro posizione nell’equilibrio generale. Zone di colori netti, che vivono di vita propria e, nello stesso tempo, si determinano le une con le altre, trovando la loro ragion d’essere negli accostamenti che, volta a volta, nascono dalla sensibilità dell’artista: così una pennellata gialla si avvicina a una rossa e questa, curvandosi, ne spinge una bluo verso un’altra rossa, che scivola e scompare sotto una gialla, per riemergere poco più in là a concretizzare una larga macchia viola… Nemmeno l’ombra di un segno, eppure questa figura mi sembra di poterla prendere tra le mani come una scultura, una costruzione, appunto. Sorride sotto i baffi (veri!) quando per errore mi presenta un quadro orientato in un senso diverso da quello voluto, ma che funziona comunque perfettamente: “Se vivono da tutte le parti e sono equilibrati significa che hai trovato spazio”. Mi spiega che nel corso degli anni ha cercato “con alcuni strappi ala regola” di “stare aggiornato”, di non rimanere legato alla pittura tonale. Credo di capire meglio cosa voglia dire quando vedo la splendida serie di opere del 2011: stesse pennellate, stesse stesure decide, stessa architettura, ma che colori! Bianco, verde chiaro, viola, verde scuro e uno straordinario grigio, un grigio quasi argento che, con la sua freddezza, ha la doppia funzione di esaltare la disarmonia rispetto al colore che gli sta accanto e di mantenere la coesione ritmica dell’intera disposizione. Questi lavori sono il risultato dello “sforzo di cinquant’anni per raggiungere la freschezza del colore!: un colore pieno, vivace, senza compromessi; un colore che non indulge a sfumature ma si dà nella sua pienezza, così com’è riportato sulla tela con la “freschezza dei bambini”.
L’effetto plastico che deriva da questi accostamenti distonici p davvero notevole. La sensazione di chi osserva è di poter entrare nel quadro e muoversi nelle zone vuote, nei corridoi di spazio libero tra le masse costituite dai colori, Gli chiedo se i quadri hanno un titolo e mi risponde che no, praticamente nessuno ce l’ha: mi diverto ad attribuirne qualcuno io, tra me e me, credendo di ravvisare in questi cieli nuvolosi, in queste lagune, in questi paesaggi astratti tracce di quel Polesine da lui tanto amato e tanto rappresentato nei suoi lavori.
Ragioniamo sul fatto che, spesso, la pennellata di un quadro sempre prolungarsi di un altro, senza soluzione di continuità, tanto che i due in sequenza potrebbero costituirne uno unico; mi dice di averci pensato, ma che la mancanza di spazio l’ha indotto a desistere. Aggiungere di aver immaginato anche di riempire una parete di piccoli dipinti accostati: “Ma chi avrebbe mai potuto esporli?”, conclude con disincanto.
Gli dico che in questi ultimi lavori ritrovo echi di altre sue cose più lontane nel tempo, persino di alcune sue sculture: “È tutta la vita che dipingo lo stesso quadro”, risponde, “cerco di renderlo più vero, più spontaneo”. Oggi alla soglia degli ottant’anni, si ha l’impressione che ci sia davvero riuscito.
Silvia Palmarin, 2013

G. Seveso – Il fervore della mente e della natura

Ora che ha raggiunto l’età della piena maturità, Gamberini sintetizza all’interno del suo immaginario creativo, rovesciandolo quotidianamente nei brani di una impressionante suite di tele che si accumulano lentamente sugli scaffali dello studio, i termini di uno straordinario fervore.
Si tratta del fervore e della pacatezza di un acuto, meditato sguardo lirico sulle forme dello spazio e dei colori, che evidentemente rimanda ad una sorta di ossimoro (il concetto espresso dagli aggettivi “fervido” e “pacato” quasi contraddittorio, capace di diventare però per me la cifra di fondo di tutto il suo lavoro, costituendo anche la particolare qualità del suo carattere espressivo e, credo del suo carattere tout court d’artista e di uomo, del suo modo d’essere e di considerare le forme e la loro rappresentazione.
Con ardore e impulso, appunto, ma anche con calma contemplazione, con appassionata razionalità. Come quando l’ho incrociato criticamente per la prima volta alla metà degli anni ’90, in occasione di una sua monografia che avevo titolato “il fiume dei sentimenti”, in cui parlavo della viva impressione che i suoi lavori lasciano nello spettatore, colpito dal carattere alluvionale, pressante, serrato e incalzante della fiumana delle sue immagini ma pure dal distacco intellettuale e progettuale che presiede con ogni evidenza alla loro serialità compositiva. Al punto che si può pensare, per il suo immaginario d’artista, a qualcosa di vulcanico e ribollente, cioè ad un fare arte caldo e quasi allucinato, come ad una serie di esplosioni rivolte all’esterno e legate a una episodicità casuale, che si contrappone dialetticamente, fruttuosamente, a una attitudine d’introspezione e di meditazione sull’immaginario che è quanta, invece, diciamo fredda. Una qualità che rimanda cioè a una concentrazione molto precisa e intensamente rivolta all’interno, a un progetto globale intimo e interiore, connotato da rigore e metodicità. E che definisce un modo di lavorare e pensare il lavoro che, lentamente e puntigliosamente, vive dentro di sé l’ambizione di esplorare minuziosamente ogni sua potenzialità possibile, ogni suo effetto e conseguenza, ogni sua deriva.
È questo contrasto vivificatore, questa dialettica fruttuosa, secondo me, a rendere attiva e “figurativa” – cioè più carica di potenzialità e di stimoli emozionale di quanto non sarebbe altrimenti possibile – la sua disinvolta interpretazione di quell’informale lombardo al quale per linguaggio e modi stilistici, per multiformità d’impresa e di tecniche, per cosmopolitismo d’espressione, per generosità e dissipazioni di segno e di gesto, potrebbe essere avvicinato.
Queste sue “mappe della mente”, come le ha chiamate lui stesso, rappresentano un modo di ricollegare le ragioni formali di un astrattismo di valenze esistenziali, fortemente lombardo di gusto e di atmosfere (nella lezione di Francesco Arcangeli, per intenderci, con una accentuazione interiore verso climi milanesi che vanno da Umberto Milani a Claudio Olivieri a Valentino Vago o a Mario Raciti) con una sorta di naturalismo non iconico, quasi geometrizzante e programmatico, dai colori psicologicamente scanditi e risolti.
Lombardo, dicevo, malgrado il fatto che Gamberini dimostri, con ogni evidenza, di essere pittore fortemente intrecciato alla sua cultura visuale di partenza, cioè quella allegata alle sue origini venete e polesane, ancora e sempre profondamente sensibile a tutto ciò che riguarda la sua terra originaria nel rapporto col grande fiume, con le alluvioni e le secche, con le esondazioni e gli impaludamenti, le golene, i sabbioni e gli argini, le ghiaie e le argille del Po. Con quella “natura” primigenia, dunque , che ancora oggi è parte determinante del suo immaginario espressivo e ne induce forme, toni, trasalimenti e scansioni visive.
Ma non c’è qui, a sostanziare queste composizioni di colori e di sensazioni plastiche e visuali, soltanto la risultanza di una larga metafora naturalistico-esistenziale di luoghi, forme e sensazioni.
C’è anche – e oggi forse soprattutto – il frutto suggestivo di una meditazione sul tempo e sulle sue tensioni, sul trascorrere di sedimentazioni e accadimenti, di mutazioni e tensioni del reale fenomenico, che ci sta intorno, che definisce i nostri spazi, i nostri destini, le nostre azioni e reazioni…. C’è l’invenzione, insomma, di un modo della pittura (e della forma) inteso come sostanza di un’idea, come risvolto pratico di un pensiero.
Anche Cézanne, davanti alla montagna di Sainte-Victoire e alle svariate interpretazioni d’immagine che ne ha dato, diceva che “ogni cosa in arte è soprattutto teoria sviluppata e applicata a contatto con la natura”.
La memoria dei luoghi, il tempo e le sue sedimentazioni, la concentrazione sulle minime variazioni della coscienza e dell’immaginario: ecco la pittura di Gamberini, questa sua figurazione non iconica, vibrante ed immobile allo stesso tempo, rivolta com’è, sostanzialmente all’emozione del reale, alla constatazione partecipe dell’esistenza.

D. Ambrosio – La pittura di Gamberini

La pittura di Ruggero Gamberini è un viaggio. Nel suo linguaggio pittorico, fatto di intensi cromatismi e di vibranti pennellate, è infatti possibile scorgere gli infiniti sentieri dell’anima che l’artista ha percorso nel corso della sua lunga carriera, partendo dalle terre umide e vaporose del Polesine. Qui, dove il fiume Po scorre impetuoso e inarrestabile, l’artista è nato ed è questo il paesaggio che si è imposto nella sua memoria. Lo scorrere dell’acqua, le piante, le nebbie e molto altro ancora emergono come un negativo dalla pittura di Gamberini. “Ho dipinto per tutta la vita lo stesso quadro”: quando sua figlia Lorenza mi ha rivelato questa frase che Ruggero amava ripetere a chi gli chiedeva di parlare della sua pittura, ho subito pensato che il concetto di viaggio fosse la dimensione più esplicativa di tutto il percorso di questo artista. Quando si viaggia si visitano luoghi sconosciuti, si fanno esperienze di vario tipo, ma in fondo è sempre lo stesso spirito a spingerci a compiere il viaggio: la voglia di conoscere, di vedere, di nutrirci di tutto ciò che non appartiene alla nostra quotidianità. Quando si ritorna, si è sempre diversi, ma alla fine siamo sempre noi, non siamo altro. Allo stesso modo, Ruggero Gamberini, attraverso la sua pittura, ci conduce in luoghi sconosciuti: a volte ci fa immergere in un blu che assomiglia a quello del mare, altre volte ci conduce verso deserti sabbiosi e aridi. E ancora, ci acceca con i suoi gialli che declinano all’arancione, come all’ora del tramonto, spalmandosi su strisce di verde, di marrone. Spesso, è un vivace rosso, oppure un tenero rosa a tracciare questi immaginifici sentieri, eppure il paesaggio è sempre lo stesso. Una topografia che richiama uno spazio ancestrale, come se quei luoghi fossero l’origine dell’uomo. Una natura che si esprime in toni non sempre pacati e meditativi, ma talvolta selvaggi, irruenti, proprio come quel grande fiume, il Po, che negli anni Cinquanta spinge l’artista, insieme ad altre tantissime persone, ad emigrare in seguito alla devastante alluvione. Il tempo non sbiadisce queste visioni, che si ripetono e si ripetono, assumendo forme sempre diverse, come in un’improvvisazione jazz, dove le note si incastrano in maniera imprevista, seguendo il ritmo, l’istinto. Ruggero Gamberini amava parlare poco di sé e della sua pittura, mi confida Lorenza. In effetti, faceva quello che un artista dovrebbe fare: dipingere. Le parole, le lasciava agli altri, e forse è giusto così. Eppure la sua poetica sembra esprimersi per codici, fatti di campiture di colore, attraverso forme solo in apparenza casuali, perché esse nascondono sentieri, luoghi segreti, angoli in cui i ricordi prendono vita. Ruggero Gamberini ha sperimentato tanto, ha dipinto in maniera quasi convulsa, su carta, su tela, su altri materiali. Anche la scultura – un medium da lui utilizzato soprattutto negli anni Settanta e Ottanta – mantiene quel senso di “movimento” e quel costante richiamo all’acqua, alla natura, che spesso si concretizza nella creazione di forme animali, di insetti, a volte dai toni fantastici e irreali. Questa tendenza anticonvenzionale è punto focale della poetica di Ruggero Gamberini e si nota in modo ancora più evidente nelle due importanti commissioni pubbliche, i due monumenti alla Resistenza commissionati dai Comuni di Lainate e Casalpusterlengo negli anni Ottanta, due opere scultoree astratte molto distanti dal realismo, spesso grondante di retorica, dei monumenti di questo genere. In questo modo il messaggio di libertà che Ruggero Gamberini esprime attraverso la sua scultura arriva fino ai nostri giorni con una freschezza e una modernità che lo rendono attuale e lo proiettano al contempo nel passato e nel futuro. Pittura, scultura, ma anche grafica, tanta, tantissima. Eppure è la pittura il mezzo più amato dall’artista, in cui è assai evidente una costante: l’abitudine a lavorare su ampie superfici, quasi come se la tela dovesse diventare un orizzonte, il piano inclinato dove far scorrere i propri ricordi. La pittura diventa così esplorazione, avventura, ancora una volta viaggio: un’esperienza che si ripeteva quotidianamente nel suo studio, in perfetta solitudine, scandagliando le vie tortuose della memoria, facendola diventare sogno e poi congelandola in un’immagine, e poi in un’altra e così via. Immagini astratte, certo, ma che con l’astrattismo hanno poco a che fare, perché è sempre il paesaggio a farla da padrone. I dipinti di Gamberini si presentano a noi con una ricchezza e una varietà cromatica ineguagliabile: in ogni decennio di attività c’è una gamma che prevale sull’altra, ma le combinazioni sono veramente infinite: la sua lingua è il colore, le pennellate sono parole. Osservando la mole di opere realizzate, parlando con la sua famiglia, emerge il profilo di un artista senza tempo, distante dalle mode, fortemente concentrato e focalizzato sul suo lavoro. “L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni” affermava Picasso. Gamberini non avrebbe mai potuto vivere senza la sua pittura, senza quelle immagini che per anni ha fatto scorrere sulla tela, sotto forma di pennellate.

Daniela Ambrosio, 2019